Da sinistra: Donald Trump nella sua foto ufficiale di Presidente degli Stati Uniti d’America del 2017; nella foto dell’arresto (per pochi minuti, uscito su cauzione) del 2023; nella sua foto ufficiale di Presidente degli Stati Uniti d’America del 2025. [Luca Maggitti Di Tecco]
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Ecco come un po’ di critica del giornalismo può aiutarci a capire le basi culturali della comunicazione trumpiana.
Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 08 Ottobre 2025 - Ore 10:00
Da un po’ ci siamo accorti più o meno in molti che il “supercafone” del Piotta non era tanto la descrizione di un tremendo burino full optional, quanto la prefigurazione involontaria del modello di potere trumpiano, modello che non coincide esclusivamente con la delicata e golden-tricotica persona di Trump, ma che si sta conclamando in modo devastante nonché tristo con il Trump bis.
Si tratta di un modello caratterizzato da un’ipertrofia assertiva incontinente e ricattatoria che funziona a colpi di scure. Un parossismo muscolare e ascendente che sembra trovare una metafora previsionale nell’incipit di “Metropolis” di Thea von Harbou: “Ecco che il fragore del grande organo crescendo fino a rimbombare si levò come un gigante, appoggiandosi contro l'alta volta della sala per mandarla in frantumi”.
Un modo così trash di interpretare un ruolo apicale diventa meno incomprensibile se si mettono assieme alcuni articoli usciti di recente su dei quotidiani che possono certamente considerarsi diversi o molto diversi per la visione delle cose di cui sono portatori.
Proviamo allora a fare un po’ di critica del giornalismo, proviamo cioè a spingere la materia giornalistica al di là della ristretta contingenza del suo primo apparire per ricavarne una più estesa occasione di approfondimento del presente.
Nadia Urbinati, politologa della Columbia University, in un articolo da mettere in cornice e affiggere in casa nonché ovunque si possa, scrive che Trump “sta costruendo mattone dopo mattone un nuovo regime che di costituzional-democratico avrà solo il guscio” (“Il tycoon è un tiranno. Una follia fare finta di nulla”, Domani, 30 settembre 2025).
L'opinione di Urbinati conferma un’inquietudine crescente che ci fa sentire prossimi alla distopia, ma il punto non è tanto questo quanto una frase dello stesso Trump citata nell'articolo.
È una frase che a prima vista potrebbe essere confusa con una delle tante uscite del presidente e che però non è affatto soltanto una delle sue tante uscite: “Io non riesco a non odiare i miei avversari”.
Queste parole non sono casuali e non sono ingenue né sono soltanto uno scampolo del discorso per la morte di Kirk, ma indicano un elemento paradigmatico dell’oratoria trumpiana.
L’affermazione prende infatti le mosse (lucidamente) da un preciso retroterra culturale nel quale affonda le proprie radici e dal quale trae la stessa linfa che permette quotidianamente a Trump di fare presa sulla pancia di una fascia della popolazione americana.
Di tale retroterra ha offerto un’interessantissima interpretazione Luciano Violante nell'articolo “I pericoli delle teocrazie politiche” (Corriere della sera, 26 settembre 2025).
La riflessione di Violante è succinta ma di robusta mole concettuale e possiede l'impostazione grandangolare di un discorso d’insieme: “La parte del mondo nella quale viviamo deve affrontare quattro autoritarismi, diversi tra loro, ma tutti pericolosi per l’Occidente e per la democrazia. Si tratta di Trump, Putin, Netanyahu, Hamas, che vantano una legittimazione teocratica, esplicitamente biblica nel caso di Trump e Netanyahu, islamica nel caso Hamas, assolutistica nel caso di Putin”.
L'interpretazione è sottile e in essa Violante focalizza un punto che suona fondamentale: “La potente Heritage Foundation, del partito repubblicano, ha redatto il Programma 2025 per la vittoria di Trump sulla base delle istanze dei gruppi cristiani più tradizionalisti che fanno una lettura letterale della Bibbia”.
Una di queste istanze - prosegue Violante - obbedisce a un principio preciso: “La lotta spirituale si combatte tra le forze del bene e le forze sataniche; ci sono amici e nemici; non ci sono alleati”.
Siamo al nocciolo della questione: la cultura a cui parla Trump assume come normale visione del mondo la cesura tra in e out, tra bianco e nero, tra buoni e cattivi, tra bene e male, quindi anche tra amici e nemici da amare e odiare senza se e senza ma, senza remore e senza scrupoli.
Per molti non sarà una novità, per molti altri sì, certo è che è uno dei meccanismi generali dell'eloquio di Trump e ne spiega la logica della retorica. E pensare che c'è una poesia di Melville che ricorda che la preghiera umilia l’orgoglio.
Sicché diventa illuminante l'articolo di Laura Pennacchi “Contro l'odio, antropologia dell'agire politico” (Il manifesto, 23 settembre 2025).
Anch'esso ha un respiro ampio e in un punto in particolare offre una password concettuale grazie alla quale addentrarsi più consapevolmente nella comunicazione trumpiana e non solo in essa: “Un esito della depoliticizzazione è evidente: il rovesciamento della realtà è la demonizzazione dell’avversario operati dalle destre tra urla sempre più parossistiche”.
Trump è quello che è e si comporta come si comporta. Lo sappiamo tutti perché tutti ne abbiamo riscontro ogni giorno se non altro perché il suo modo di muoversi non fa che interpellare continuamente la nostra idea dei perimetri dell’ammissibile, ma grazie a questi tre articoli adesso vediamo con un po’ più di chiarezza quale sia il suo backstage ideologico.
ROSETO.com
Il critico condotto [Simone Gambacorta]
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Simone Gambacorta
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