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Da oltre tre secoli l’Occidente ha elaborato un modello di governo basato sulla democrazia. Oggi, con l’avanzare di autocrazie e totalitarismi mascherati, sembra che tutto sia messo in discussione. Un articolo di William Di Marco per Koinè.
Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 22 Dicembre 2025 - Ore 10:30
IL RIGORE DEMOCRATICO – Se la nostra contemporaneità è approdata alla democrazia e oggi la consideriamo, nonostante una crisi profonda sistemica, la base del nostro convivere civile, dobbiamo essere orgogliosi di un simile viaggio. Soffermiamoci su due considerazioni. La prima è il percorso storico, lungo e pieno di ostacoli. La parola nasce nell’Antica Grecia, ma quella forma, in cui il popolo aveva il potere decisionale, era in uno stato embrionale e poco condivideva con ciò che si sarebbe sviluppato in epoca moderna. Tralasciando il periodo di Pericle, occorrerà aspettare il secolo dei lumi per uscire fuori dall’oscurità dell’ignoranza. I sovrani erano considerati, sin dall’alto medioevo, degli intoccabili e posti a capo delle nascenti nazioni o piccole comunità per volere divino. Il re di turno era stato scelto dall’alto e se il papa governava l’aspetto spirituale, il regnante doveva provvedere, a modo suo e con la totale libertà di azione, alle esigenze del popolo. Ma queste figure apicali dovevano confrontarsi con una fitta rete di feudatari e quel potere così generalizzato all’apparenza, era molto limitato nella sostanza. Nel corso del ‘500 e soprattutto tra il ‘600 e ‘700 si sviluppa il concetto di monarchia assolutista: sopra il re non c’era nessuno e in lui si racchiudeva tutta l’autorità. In una parte d’Europa, però, qualcosa stava cambiando. Con le due Rivoluzioni inglesi del 1648 e 1688 il sovrano britannico cede parte del suo potere al parlamento. In virtù di questa nuova visione, dall’Inghilterra si realizza la trasformazione illuminista di John Locke. Il suo pensiero invade l’Europa, covando movimenti soprattutto in Francia. Nascono le grandi idee del cambiamento, come la tolleranza (Voltaire), l’uguaglianza (Rousseau), la pari dignità dello scibile umano (Diderot e D’Alembert), l’umanità nei confronti dei carcerati (Beccaria). Tuttavia sarà Montesquieu a dare una sferzata a questa forma di regime innovativo che sta nascendo attraverso la divisione dei tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, che non possono stare nelle mani della stessa persona o organo. In tal modo si sviluppa in modo sistemico il principio democratico. Da allora passi in avanti sono stati fatti, fino a giungere all’oggi, dove tale forma di governabilità sembra aver perso lo smalto e sta entrando, giorno dopo giorno, in crisi.
AUTOCRAZIA PER UN ITALIANO SU TRE – Cosa sta succedendo se il 30% della popolazione in Italia vede di buon occhio le autocrazie? Intanto queste forme di governo hanno dei sinonimi, quali assolutismo, dispotismo, dittatura, tirannia e totalitarismo. Se a questo preoccupante dato aggiungiamo che il 72% dei cittadini italiani non crede più nei partiti politici il quadro si fa fosco. Gli ultimi dati del rapporto Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), diramati pochi giorni fa, preoccupano molto gli analisti. Le riflessioni sono tante e non incoraggianti. È una fotografia che non va addebitata solo a coloro che si sono ormai abbandonati a una deriva di psicologia sociale. La motivazione va ricercata all’interno del sistema, che sembra troppo farraginoso e velleitario. In altre parole, i vari governi dittatoriali considerati “efficienti” come quello cinese (con Xi Jinping) o russo (con Putin) oppure altri ancora esistenti in Asia, in America Latina o in alcune nazioni islamiche, appaiono più performanti, poiché riducono i tempi di realizzazione dei progetti. In questi grandi Paesi conta il risultato finale e poco interessa come vivono all’interno i cittadini. Sembra che la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani e delle diversità non siano più il faro illuminante del nostro agire, ma un peso che non permette di essere più al passo con i tempi. Se in Cina un’autostrada viene costruita in pochi mesi, mentre in Italia occorrono decadi, il rendimento accelerato è considerato un valore, soprattutto in una società variegata e complessa come l’attuale, che pretende risposte certe. In pratica, si guarda di più al risultato finale e ai brevi tempi di realizzazione. Per tale motivo si sta radicando il convincimento che un uomo solo al comando (in questa visione fa presa anche la presidenza decisionista statunitense) ha maggiori capacità rispetto alle lungaggini burocratiche dei parlamenti, dei partiti e della politica.
REGOLE E RECIPROCITÀ – Per invertire un declivio che potrebbe portare a situazioni simili a quelle degli anni ’30 del Novecento, in cui proliferarono i tre totalitarismi, la democrazia deve riappropriarsi di due sani principi. In primis accettare le regole e il rispetto delle stesse. Occorre più decisionismo nei vari ambiti del convivere civile, partendo dalle famiglie e approdando nelle scuole e nei rapporti interpersonali. Le norme non solo devono essere onorate, ma condivise, in special modo quando vengono approvate per accrescere la democrazia. In seconda battuta, va riconsiderata la reciprocità. Se è vero che la lealtà va donata e anche pretesa, chiunque la deve considerare un precetto imprescindibile. Non esistono le società aperte in cui tutto vale, al punto da approdare al relativismo agnostico. La riscoperta delle tradizioni, delle identità, del mos maiorum dei latini sarebbe un buon punto di partenza per rispettare gli altri e farsi rispettare. I primi a rigenerarsi dovrebbero essere i politici, con l’accettazione dei principi etici (interessi pubblici e non privati). Necessita l’umiltà di comprendere che voler bene alla propria terra – non svendendola alle ideologie o alle nazioni che sfruttano i bambini, il lavoro disumano e opprimono la libertà – significa consolidare i valori democratici con cui abbiamo costruito la civiltà occidentale. In democrazia si può essere autorevoli, fermi e decisionisti per evitare la demagogia, senza scivolare mai nel pericolo autoritario.
William Di Marco
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