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NICOLA GRATTERI: MA MIA VITA CONTRO LA ‘NDRANGHETA.
Pineto, 23 ottobre 2010. Nicola Gratteri durante il suo intervento.
[Mimmo Cusano]


La copertina del libro Samarcanda.

Pineto, 23 ottobre 2010. Nicola Gratteri intervistato da Luca Maggitti.
[Mimmo Cusano]


L’uomo di legge calabrese, da sempre in prima linea nella lotta contro la ‘Ndrangheta e attuale Procuratore di Napoli, intervistato nel 2010 e pubblicato nel 2012 nel libro Samarcanda di Luca Maggitti.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Lunedì, 19 Maggio 2025 - Ore 10:30

Nicola Gratteri
LA MIA VITA CONTRO LA ‘NDRANGHETA

Pineto, 23 ottobre 2010.
(L’intervista completa è pubblicata su YouTube. Link in calce.)

Nicola Gratteri, calabrese della Locride, Procuratore Aggiunto della Repubblica presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, è il magistrato più esperto in fatti di ‘Ndrangheta, mafia contro la quale è impegnato in prima linea. Vive sotto scorta dal 1989.
Insieme al giornalista e studioso di mafie Antonio Nicaso, ha scritto i libri “Fratelli di sangue”, “La malapianta”, “La giustizia è un cosa seria”, “La mafia fa schifo”, tutti per Mondadori.
L’intervista qui proposta è stata realizzata dopo la presentazione del libro “La malapianta”, edito da Mondadori nel 2010, nell’ambito del Premio Nazionale Paolo Borsellino.

Procuratore, quando ha deciso che avrebbe, per scelta di vita, combattuto la ‘Ndrangheta?
«Quando frequentavo la scuola media. I miei compagni di scuola erano figli di ‘ndranghetisti, il mio compagno di banco è stato ucciso a lupara, tanti miei compagni di giochi poi sono stati, con le mie indagini, condannati. Quindi ho pensato di fare qualcosa per la mia terra, che per certi versi può essere una landa desolata, ma il posto più bello è il posto dove si nasce, dove ci sono le radici. Non riuscivo a sopportare quelle sopraffazioni, quella violenza che oggi comunemente si chiama bullismo. Io a scuola vedevo i figli degli ‘ndranghetisti che esternavano il loro potere anche in nome e per conto della loro famiglia».

Se lei dovesse scegliere aggettivi per descrivere l’uomo Nicola Gratteri, quali sceglierebbe?
«Io sono una persona semplice che cerca di dare tutto se stesso nel lavoro, ma soprattutto cercando di aiutare gli altri e di spiegare ai ragazzi perché non conviene essere ‘ndranghetisti».

Lei coltiva l’orto nei rarissimi momenti liberi ed è molto legato alla sua terra. Se dovesse invece parlare della Calabria a chi non la conosce? Una terra, parafrasando Borsellino che parlava della Sicilia, bellissima ma anche molto disgraziata?
«Sì, dal punto di vista paesaggistico è bellissima, perché nel giro di poche decine di chilometri c’è il mare, c’è la montagna, c’è l’Aspromonte. È devastata da un grande abusivismo edilizio. I calabresi tendenzialmente sono persone molto generose, molto buone e accoglienti. Non è un popolo razzista, però purtroppo c’è questa malapianta, che ormai soffoca anche il quotidiano in gran parte del territorio calabrese».

Non le sembra un paradosso sacrificare la sua libertà personale, per far sì che molti di noi godano delle loro  libertà essenziali? Lei vive sotto scorta da più di 20 anni e questo immagino sia un enorme sacrificio...
«L’importante è essere convinti di essere nel giusto. Io credo in quello che faccio e spero, mi auguro, che presto ci possa essere il giro di boa per arginare il fenomeno mafioso».

La ‘Ndrangheta è da qualche anno la più potente delle mafie. Da quando è diventata la più  pericolosa?
«La ‘Ndrangheta è la più ricca perché è leader nel traffico internazionale di cocaina. Non esiste nessuna attività, fra lecita e illecita, più redditizia. È pericolosa perché, già da metà degli Anni ’70, i figli degli ‘ndranghetisti sono andati a scuola, sono andati all’università e sono diventati medici, ingegneri, avvocati e sono nei quadri della pubblica amministrazione, ormai inseriti nell’alta borghesia, nella massoneria deviata. Quindi sarà molto difficile sradicarla, perché ben inserita nella pubblica amministrazione».

Massoneria deviata e alta borghesia, quindi dalla ‘Ndrangheta si passa alla Santa. Quando nasce e cosa rappresenta, nel quadro più complessivo della ‘Ndrangheta?
«La Santa nasce a metà degli Anni ’70 ed è lo spartiacque tra vecchia e nuova ‘Ndrangheta. Consente ad uno ‘ndranghetista di essere, al contempo, nella ‘Ndrangheta e nella massoneria deviata e quindi di avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione, con medici, ingegneri, avvocati e sedersi intorno a un tavolo nella stanza dei bottoni. Non stare più all’esterno, accontentandosi della mazzetta del 4%, del trasporto di inerti, dell’abigeato o del pizzo».

“La malapianta” è il suo ultimo libro. In quanti continenti questa metastasi tumorale si propaga?
«Purtropo la ‘Ndrangheta è presente in quattro continenti. E’ molto presente soprattutto in America, sia del Nord sia del Sud, oltre che in Europa – Germania, Belgio e Olanda, Spagna e Portogallo –  ed è molto forte in Australia. Ma abbiamo locali di ‘Ndrangheta anche a Città del Capo, in Africa».

Quanto è grande il paradosso che c’è fra l’ostentata religiosità dei boss, a partire dall’affiliazione, e l’assoluta assenza di ogni valore di carità cristiana?
«I boss modellano e modificano la religione a proprio uso e consumo e pensano di essere nel giusto. Loro uccidono perché noi siamo degli intrusi, degli ospiti che se stanno alle loro regole possono stare nel loro territorio, altrimenti è giusto ucciderci. Loro si auto convincono e si rivolgono alla Madonna per ottenere la protezione, credono e pregano e sono molto generosi, anche durante le processioni e nelle donazioni e oboli».

Su alcuni argomenti di carattere nazionale, lei ha dimostrato di avere le idee molto chiare. Partiamo dalle intercettazioni. C’è molta disinformazione su uno strumento investigativo che lei ha più volte detto essere il più economico e il più certo. Perché è il più economico e il più certo?
«E’ il più economico perché una intercettazione costa al giorno, per 24 ore, 11 euro più IVA. Per avere lo stesso risultato tramite un pedinamento, certe volte ci vogliono due o tremila euro, con alta percentuale di essere scoperti o di perdere il pedinato nel traffico di una grande città. E’ il più certo perché la prova è formata dalla voce degli attori protagonisti, degli indagati, contrariamente invece alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che può dire dieci cose vere e una falsa e nella falsa incappa magari un innocente. Quindi perché non privilegiare questo strumento eccezionale rappresentato delle intercettazioni telefoniche?».

Lei ha detto che gli investigatori italiani sono fra i primi – forse i primi – nel mondo. A questa forza degli inquirenti, dovrebbe corrispondere un adeguamento dei codici? Si parla di globalizzazione, dovrebbe quindi esserci un diritto che, a livello europeo, sia in grado di combattere la ‘Ndrangheta anche oltre i confini italiani nel miglior modo possibile?
«L’elite della polizia giudiziaria italiana è la migliore al mondo in assoluto o una delle due, tre migliori al mondo. Abbiamo una legislazione antimafia molto avanzata e però questo non basta, perché siamo un Paese che ha quattro mafie. Ma la cosa che manca ancora di più, ora che il mondo è sempre più globalizzato, è che purtroppo nemmeno l’Europa riesce a creare un sistema giudiziario proporzionato alla realtà criminale. Noi, quando spesso andiamo all’estero con rogatorie internazionali, per rapportarci con altre polizie e con le procure degli altri paesi troviamo delle difficoltà ad interagire, perché abbiamo delle norme negli altri stati che ci impediscono di operare. Ad esempio, in Olanda non è possibile ritardare il sequestro della droga e l’arresto dei trafficanti, mentre in Italia è possibile. In alcune parti della Germania non è possibile fare intercettazioni ambientali in locali pubblici. In Spagna non è possibile fare delle perquisizioni notturne. Sono cioè tante incongruenze, rispetto al sistema giudiziario italiano, e quindi maggiori difficoltà ad intervenire. Purtroppo, erroneamente, gli stati d’Europa non si attrezzano, perché ritengono che il problema mafia non sia un loro problema, ma un nostro problema».

L’abbiamo vista silenzioso e quasi corrucciato nella conferenza stampa a Milano relativa all’operazione “Crimine”, che ha portato all’arresto di centinaia di ‘ndranghetisti. Lei, riflettendo su questa operazione, ha detto che bisogna innanzitutto non confondere i vari ruoli all’interno dell’organigramma dell’organizzazione. Quanta attenzione c’è da fare e quanto sono da condannare i facili entusiasmi di chi dice che con una singola operazione la ‘Ndrangheta a Milano è stata decapitata?
«Questa indagine, grazie anche allo strumento delle intercettazioni, ci ha consentito di dimostrare meglio e di spiegare meglio agli altri – perché noi già lo avevamo capito – cos’è il “Crimine”, cos’è la struttura della ‘Ndrangheta. Certo, se noi pensiamo che di questi 300 arrestati almeno il 50%, se condannati, fra 6 o 7 anni usciranno dal carcere, è ovvio che io non sono entusiasta. Perché mentre penso che abbiamo arrestato 300 persone – e 1.000 nel solo anno 2010 – io le posso dire che in provincia di Reggio Calabria ci sono altri 10.000 ‘ndranghetisti».

Parlando di ‘Ndrangheta fuori dalla Calabria, lei sottolinea che è sempre il caso di fare molta attenzione in terre teoricamente “vergini” come l’Abruzzo, in cui non c’è l’uomo ucciso a terra o la macchina bruciata, ma bisogna fare attenzione al numero di costruzioni invendute, alla proliferazione di ipermercati, alla composizione dei piani regolatori. Quali sono le sue pillole di saggezza, da condividere con chi vive in una terra apparentemente non inquinata, almeno a livello militare, dalla ‘Ndrangheta?
«E’ ovvio che le mafie esternano il loro potere in base al territorio in cui si trovano. Nel loro territorio hanno bisogno di dimostrare di poter controllare il respiro e il battito cardiaco della gente, quindi adoperano estorsioni, danneggiamenti, omicidi. Nelle altre regioni italiane o all’estero, quando devono riciclare denaro, cercano di preservare quel territorio da reati con morti, serrande e macchine bruciate, altrimenti quel territorio varrà di meno. E siccome lì devono fare investimenti, lì non succedono quei tipi di reati. Perché dove si fanno investimenti o vende droga, non deve esserci allarme sociale. In tal modo la gente è tranquilla, i giornali non scrivono nulla, la polizia giudiziaria non indaga e tutti sono contenti. In realtà, in alcuni territori si costruiscono ipermercati, villette a schiera e palazzi che per mesi o anni restano invenduti, visto che c’è una sovra costruzione rispetto al fabbisogno del territorio stesso».

Con la sua solita schiettezza, lei ha fatto un passo avanti che ha colpito alcuni che l’hanno ascoltata, dicendo che non basta tenere in galera i boss e far loro scontare per intero la pena senza attenuanti o sconti, ma che bisogna anche fare in modo che i mafiosi si guadagnino quello che costano allo Stato che li mantiene in carcere, aprendo i campi di lavoro. Una provocazione azzeccata...
«Parto da una semplice riflessione. Quando dei tossicodipendenti vengono portati in una comunità terapeutica, per prima cosa li si fa lavorare dall’alba al tramonto, per far loro avere sempre la mente impegnata e non farli pensare a ciò che hanno fatto nella loro vita fallimentare precedente. Dal punto di vista psicologico li si azzera, quasi li si riporta bambini, gli si costruisce una personalità. Perché i detenuti, invece, devono stare dieci ore al giorno davanti alla televisione senza fare nulla? Perché non li facciamo lavorare se vogliono mangiare? Perché non li facciamo produrre? Quindi penso ai campi di lavoro. Io naturalmente ho spiegato che sono contrario ad ogni forma di tortura, anche ad uno schiaffo in caserma o in carcere, perché il detenuto deve stare bene, in salute, curato altrimenti poi esce fuori dal carcere. Il detenuto deve essere rispettato nella persona, perché altrimenti creeremmo soltanto una vittima, e io non voglio che il detenuto diventi una vittima o diventi un eroe nel suo mondo. E allora il detenuto deve stare in carcere, perché io non credo nella rieducazione del condannato mafioso. Io penso che si possa ravvedere un rapinatore, un estortore, persino un omicida, ma chi è stato battezzato dalla ‘Ndrangheta o da Cosa Nostra esce dall’organizzazione solo quando muore. Però noi continuiamo a ripetere ipocritamente che la pena tende alla rieducazione del condannato per tutti, ma questo la storia e la giurisprudenza ci hanno insegnato che non è vero. E allora noi dobbiamo cercare di dimostrare nel contraddittorio delle parti, in dibattimento - non con rito abbreviato, con rito alternativo – che tizio è il capo mafia del paese. La dobbiamo finire di con gli sconti del rito abbreviato. Lo dobbiamo condannare a 30 anni di carcere e lì farlo stare, sano. E deve lavorare se vuole mangiare. In tal modo, intanto togliamo un pericolo dalla società, perché lo Stato di deve preoccupare della tutela della collettività e non della tutela del singolo. Noi dobbiamo pensare alla gente che lavora, paga le tasse, si impegna nel sociale e poi vuole permettersi una passeggiata tranquilla sul corso o sul lungomare del paese senza che nessuno lo disturbi. Di questo deve preoccuparsi lo Stato. Del condannato, deve preoccuparsi di farlo stare bene, in salute, di farlo stare in carcere. Il detenuto potrà anche dimostrare di essersi ravveduto, ma la mia esperienza mi insegna che il mafioso cessa di essere mafioso solo quando muore. Quindi il mafioso deve stare in carcere e deve lavorare nei campi se vuole mangiare».

Parliamo della cocaina e di come la ‘Ndrangheta in questi decenni non abbia mai sbagliato un investimento. Dai soldi fatti con i sequestri di persona ormai 30 anni fa, reinvestiti nella gestione dei subappalti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, nella gestione dei rifiuti e nella cocaina. La cocaina che la ‘Ndrangheta acquista in Sud America fra i 1.200 e i 1.300 Euro al chilo e che produce un incremento di valore pazzesco una volta spacciata. Lei ha sottolineato la difficoltà ad indagare in alcuni paesi...
«Abbiamo delle difficoltà in Europa, figuriamoci negli altri stati. Cerchiamo sempre di creare rapporti interpersonali con la magistratura degli altri stati, costruendo un rapporto di fiducia e di stima. E’ ovvio che ci troviamo davanti a sistemi giudiziari diversi ed è ovvio che al mutare delle condizioni politiche  è anche più difficile indagare all’interno di alcuni stati, come ad esempio il Venezuela, che hanno una impostazione anche ideologica diversa dalla nostra e quindi troviamo maggiore difficoltà rispetto a 10 o 15 anni fa ad entrare in quel paese, anche se attraverso rogatorie per dimostrare la presenza di trafficanti di cocaina all’interno di quello Stato».

Parlando della guerra della cocaina che dilania il Messico, lei ha già detto ad altri organi di stampa che bisogna fare attenzione, affinché quei malviventi, davvero terribili, non arrivino in Italia...
«In Messico c’è in questo momento una violenza incredibile e inaudita, con torture indicibili sulle persone prima di ucciderle. Dall’inizio dell’anno ad oggi sono stati uccisi 5.000 poliziotti, anche perché in quel paese c’è un sistema di corruttela spaventoso. I messicani sono molto feroci, arrabbiati e affamati, quindi hanno invaso di cocaina gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno reagito attraverso la DEA e l’FBI, al punto che, poco più di un anno fa, insieme alla DEA, all’FBI, alle Giubbe Rosse e alla polizia olandese abbiamo sequestrato 64 tonnellate di cocaina e 45 milioni di dollari. I messicani hanno avuto contatti con la ‘Ndrangheta, incontrandosi sotto il ponte di Brooklyn. Ed è lì, a New York, che stanno tessendo dei rapporti con la ‘Ndrangheta. La mia paura è che se i messicani sbarcano in Europa sarà la fine dal punto di vista investigativo e dal punto di vista giudiziario perché, credetemi, sono come le cavallette: feroci, imbufaliti e imbestialiti».

Lei afferma che il potere non vuole mai due cose: un sistema giudiziario forte e una scuola che funzioni. Vuole approfondire questo concetto?
«Io parlo sempre a seguito dei risultati della mia esperienza di magistrato e di uomo. Io non sono un politico, non sono un esperto, ma da uomo della strada posso dire che se in una scuola pochi anni fa c’erano 20 alunni e oggi ce ne sono 30, pur con tutte le modifiche, le strategie e i miracoli, un insegnante finirà inevitabilmente per curare peggio i suoi alunni. E quindi non penso che sia questa la strada per insegnare nelle scuole. E poi negli ultimi anni a scuola si parla di progetti, di settimana dello studente, di cinema, di cultura della legalità, ma nelle scuole non si insegnano più la lingua italiana, la storia, la geografia, la matematica. Questi ragazzi crescono, si diplomano, si laureano e non sanno parlare la lingua italiana. Così a volte, in udienza, mi capita di sentire qualche avvocato dire: “Se io avrei...”, oppure leggere errori di grammatica nelle istanze. E io non penso che sia un caso, perché un popolo colto, un popolo dotto, diventa un popolo pensante e quindi si ribella e non ride più davanti alla televisione o davanti a trasmissioni pomeridiane o comunque a trasmissioni spazzatura. Una giustizia che funzioni vuol dire che controlla anche il manovratore, colui che ha il potere in mano E certo che chi ha il potere non vuole una giustizia che funzioni, perché vuole continuare a governare senza essere controllato».

Luca Maggitti
SAMARCANDA
Cultura in provincia per un’Italia migliore
Interviste e immagini del Premio Borsellino, del Premio Fava e di altri incontri
Carsa Edizioni – Ottobre 2012 – Euro 15


NICOLA GRATTERI
LA MIA VITA CONTRO LA ‘NDRANGHETA
Intervista video completa
http://www.youtube.com/watch?v=OCwsOgZOFao

 

Luca Maggitti Di Tecco
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