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Uomini di Basket
IWAN BISSON RACCONTA IL ROSETO SHARKS IN TELECRONACA
Roseto degli Abruzzi, PalaMaggetti, 14 ottobre 2018, Roseto-Cagliari. Luca Maggitti, Lorenzo Settepanella e Iwan Bisson, prima della telecronaca.
[Cusano Photo]


Iwan Bisson, nel 2015, nel giorno del suo ingresso nella Italia Basket Hall of Fame.

Iwan Bisson, numero 14 della Mobilgirgi Varese, in azione contro Chuck Jura.

Il campionissimo sarà l’esperto tecnico per il campionato 2018/2019, raccontando gli Sharks insieme a Luca Maggitti e Lorenzo Settepanella. Una intervista di William di Marco per conoscere meglio l’Italia Basket Hall of Fame e altri link.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Martedì, 23 Ottobre 2018 - Ore 14:00

Iwan Bisson, Italia Hall of Fame dal 2015, campionissimo che in carriera ha vinto con Varese 2 Coppe Intercontinentali, 4 Coppe dei Campioni, 5 Scudetti e 2 Coppe Italia e con l’Italia 2 Medaglie di Bronzo ai Campionati Europei e partecipato alle Olimpiadi di Monaco 1972 e Montreal 1976, seguirà il Roseto Sharks 2018/2019 in qualità di esperto tecnico nelle telecronache condotte da Luca Maggitti e che si avvarranno anche delle analisi di Lorenzo Settepanella.

Cogliamo l’occasione della notizia per riproporre, di seguito, l’intervista che Iwan Bisson ha rilasciato a William Di Marco, pubblicata su Eidos News. Inoltre, in calce, alcuni link a video, foto e articoli riguardanti il grande campione.

IWAN BISSON
Articolo di William Di Marco, pubblicato su Eidos News nel 2017.


Iwan Bisson. È stato tra i giocatori di basket più titolati, con scudetti, Coppe dei Campioni e Intercontinentali. Tutto prese il via da quei tiri sferrati a canestro nei soleggiati pomeriggi estivi all'Arena 4 Palme. Poi doveva fare il docente, ma...
 
L'epopea del grande basket "Made in Italy" e anche "Made in Torneo Lido delle Rose" lo ha visto tra i protagonisti assoluti, lui che era cresciuto tra i campi di Teramo e Roseto. Appese prematuramente le scarpette al chiodo, intraprendendo un interessante percorso da manager calcistico, edile, industriale e immobiliare. Ma il suo viaggio doveva fermarsi proprio a Roseto, in un richiamo fatto di passioni, tra basket e affetti familiari.

Lo sguardo dell'oltre è qualcosa che va codificato. In campo artistico significa superare la barriera del denotativo per entrare in quella metafisica del connotativo. In termini tattici vuol dire raggiungere una posizione di ampia visuale e poter agire. Anche gli antichi Romani avevano un debole per quelli che dall'alto delle loro posizioni dominanti, riuscivano a vedere meglio il campo di battaglia. Non si trattava solo di raggiungere una altura, ma avere gli occhi sugli altri. Così i nordici, se da un lato erano i guerrieri da abbattere, dall'altro erano quelli che venivano ammirati, data la statura e la possanza del fisico. Si vede che anche per Iwan Bisson l'eco lunga delle lande sconfinate delle zone lontane siberiane siano risuonate alla mente della nonna, che aveva un debole per le opere e i personaggi della tradizione letteraria russa. Così volle che si rinnovasse il nome del padre, ma rendendolo ancora più esotico e di attrattiva ancestrale, quasi per evocare il richiamo delle conifere del lontano Nord. Iwan, con quel nome con la doppia "w", tanto per differenziarsi dal genitore con la "v" normale, sin da piccolo era una spanna sopra gli altri. Giocava a perdifiato nei campetti prima delle suore e poi dei salesiani. Niente palla con le mani, ma solo calci alla sfera indirizzata in porta che dava l'ebbrezza del gol. Certo, un campo di pallacanestro ce l'aveva anche vicino casa, in cemento, ma la passione era ancora lontana a venire, soprattutto perché siamo in quel di Macerata e non in riva al mare che amerà, in terra d'Abruzzo, in cui le rose profumavano in modo diverso e avevano anch'esse una forma a spicchi. Si accorse che la pelota non faceva per lui, perché nel crescere i piedi aumentavano di volume e poco si adattavano ad accarezzare un pallone di cuoio. I tiri semplici diventavano delle svirgolate e l'attrazione per quel gioco venne meno. Ma ecco affacciarsi all'orizzonte un nuovo percorso di vita, fatto di dolore ma anche di cambiamenti. Dopo aver perso i genitori, la nuova casa diventa quello del famoso zio Berardo Taraschi, imprenditore teramano del settore automobilistico, ma soprattutto asso del volante, conosciuto come "Lupo d'Abruzzo". La città aprutina diventerà la sua nuova patria, ma i nuovi luoghi da esplorare, per l'Iwan dal nome e cognome poco nostrani, non erano finiti. D'estate si rimaneva fino anche a due mesi nella villa degli zii, posta proprio di fronte al Lido La Bussola, in quella Roseto che alla fine degli anni '50 e inizio '60 già respirava un'aria internazionale legata al basket che conta. Così l'Arena 4 Palme diventa la sua seconda casa, e quella palla torna ad essere la sua attrazione, ma questa volta i piedi non c'entravano più. Il trampolino di lancio era dietro l'angolo e il giovane e alto ragazzo, dall'animo gentile e dal temperamento pacato, non se lo farà sfuggire. "Nella mia vita ho spesso indovinato le mosse giuste - sussurra oggi con un pizzico di orgoglio - anche se di errori ne ho commessi ugualmente". È certo che sul parquet ha azzeccato tutto, con un altarino di titoli da far invidia: 5 scudetti, 2 Coppe Italia, 4 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 2 Bronzi agli Europei. Eppure tra tutti questi memorabili traguardi, oggi ne ammira uno con la fierezza che gli fa brillare gli occhi: il titolo di "Italia Basket Hall of Fame" ottenuto nel 2016 dalla Federazione Italiana Pallacanestro. Ma dopo i rettangoli di gioco la sua vita è continuata, spesso dietro una scrivania come manager nei più svariati settori. Da quello industriale al comparto edile, dai frigoriferi alla gestione degli immobili, non dimenticando mai la pallacanestro. E appena c'è stata la possibilità di ritornare nell'ambiente che gli ha dato fama e notorietà, si è fatto trovare pronto per accettare la sfida, proprio a Roseto, la città che lo ha visto nascere sportivamente e che diventerà la sua sede definitiva.
Il divano è pronto e Iwan, data la postura, domina anche quello.

Una infanzia tra suore e preti.
Partirei proprio dal luogo di nascita. A Macerata ho aperto gli occhi il 21 aprile del 1946. Il mio legame con l'Abruzzo c'era già nei cromosomi, dato che mia madre, Mara Taraschi, era di Tossicia, sorella del famoso Berardo di Teramo, campione di automobilismo. Mio padre Ivan era di Noventa Vicentina, anche se le nostre origini, dato anche il cognome, sono francesi e risalgono a una famiglia del '400 di Montpellier. Addirittura un mio antenato, il generale Baptiste Pierre Bisson, faceva parte dell'esercito napoleonico e il suo nome è inciso nella 16a colonna del pilastro est dell'Arco di Trionfo di Parigi. Tornando a mio padre, faceva il dirigente all'Inps di Macerata, mentre mia madre, dopo un periodo anche lei da impiegata nella previdenza, accudiva me e mia sorella Marilena, più grande di cinque anni. Di quel periodo ricordo che la nostra casa era vicino la stazione e frequentavo le Elementari private, gestite dalle suore. Le maestre, tutte religiose, me le ricordo ancora. Nella struttura c'era un campetto di calcio e ci giocavo con piacere, anche se vicino casa c'era anche un rettangolo di cemento con i canestri. Facevo qualche tiro, ma in città lo sport più praticato in assoluto era quello del pallone e c'era il mito del vecchio campo della Maceratese, il famoso Helvia Recina. Alle Medie andai al collegio dei Salesiani, in cui aveva studiato mio padre, uno dei migliori studenti, premiato ogni anno. Non vivevo dentro il convitto, poiché la sera tornavo a casa, ma dalle ore 8 alle 20 ero sempre lì, sia per la scuola sia per quello che facevamo nel pomeriggio. Le regole erano ferree e c'era disciplina, aspetto che poi ho apprezzato nella vita, poiché mi è servita come metodologia per impostare le cose che facevo. Per farle capire i tempi, allora c'erano le punizioni corporali: le bacchettate e i ceci sotto le ginocchia erano all'ordine del giorno. Inoltre credo che per la mia generazione sia stato utile anche il servizio di leva, in quanto il rispetto dei ruoli è qualcosa che alla lunga ti fa crescere. A proposito di crescita, nelle varie fasi dell'infanzia e adolescenza ero sempre il più alto, perciò mi collocavano all'ultimo banco. Credo che abbia ripreso da mia madre, una donna di 1,75 e per i suoi tempi era un'altezza notevole. Io mi sono "fermato" a 2 metri.

Poi vennero anni tristi e per lei ci fu un cambiamento radicale, con Teramo e Roseto all'orizzonte.
È vero. I miei genitori morirono e fui affidato al mio tutore, cioè il fratello di mia madre Berardo Taraschi. Per questo motivo mi trasferii a Teramo e continuai gli studi. In verità le Superiori le avevo iniziate a Macerata al Liceo Scientifico, ma fui bocciato e così cambiai, scegliendo la Ragioneria, che frequentai solo al primo: gli studi tecnici erano più nel mio Dna. I successivi tre anni li feci al Comi di Teramo, per poi diplomarmi a Varese, quando venni acquisito dall'Ignis Basket. Tuttavia il cambiamento di città mi portò un'altra novità, che sarà determinante per me. Nell'estate del 1960 misi piede per la prima volta in modo continuativo a Roseto. C'ero già stato da piccolo, nella villa di mio zio che era posta di fronte al Lido la Bussola, ma quell'anno lo feci per un periodo lungo. Venivamo ai bagni per uno o due mesi ed era l'occasione per fare amicizia e conoscere gente nuova. Mi invitarono ad andare alle 4 Palme per giocare a pallacanestro; c'era mio cugino Tazio Taraschi, il dottore Di Donato, tanti villeggianti romani e mi vide Jafet Bruscia, l'allenatore del Roseto. Capii le mie potenzialità e lo colpì l'altezza, così mi appassionai a tirare il pallone a canestro che poi segnerà in modo definitivo la mia vita. Lo sport mi piaceva tutto, tant'è che nel periodo marchigiano avevo partecipato ai campionati studenteschi del lancio del peso e del disco, vincendo sempre (mostra nel dettaglio articoli degli anni '50 in cui è citato, recapitatigli da amici di Macerata, nda). Così cominciai a giocare a Teramo con la D'Alessandro e mi piaceva pure cimentarmi al campo-scuola in cui mi allenavo. All'Istituto Comi veniva anche il rosetano Sandro De Simone e insieme abbiamo fatto diverse partite. Era abilissimo a lanciarmi la palla in alto, che io schiacciavo puntualmente.

Ecco che arriva la chiamata da Varese. Come avvenne?
Alla D'Alessandro mi seguiva il prof. Pellegrini. Capii che per me poteva essere una specie di atout, di opportunità e comincia a prendere la pallacanestro in modo serio. Entrai nel giro delle Nazionali sperimentali e mi chiamarono per un concentramento a Bassano del Grappa. Giocavo con il Teramo e in squadra con me c'erano i vari Corrado Pellanera, Nardi, Bebè Martorelli, Italo Di Antonio. Fu quest'ultimo che, stando a Roma al Coni, mi aveva segnalato al grande allenatore della Nazionale Nello Paratore. Tornando alla selezione di Bassano, eravamo tra i 300 e 400 giovani giocatori, ma ne scelsero solo dodici, tra cui io. Ero in ottima compagnia con Dino Meneghin, Marino Zanatta, Giulio Iellini, Giorgio Buzzavo. In quell'occasione conobbi Alfredo Casato, dirigente del gruppo Ignis del leggendario presidente Giovanni Borghi. Allora era una società al top, con sezioni di ciclismo, tennis, pugilato (in cui militava Alessandro Mazzinghi) e in ogni disciplina c'erano i migliori atleti. A 19 anni mi arrivò la chiamata di Casato e mi ritrovai a Comerio in provincia di Varese, non solo sede dell'importante industria di elettrodomestici, ma luogo dove sorgeva il centro sportivo. Vi erano impianti all'avanguardia di calcio e basket, una piscina olimpionica, una foresteria per i giocatori, il tutto condito da un'ottima organizzazione. Frequentai l'ultimo anno dell'Istituto Tecnico, mi diplomai e intanto andai a giocare con la Algor Varese, società del gruppo Ignis che militava in serie B e che serviva per far maturare i giovani. I cestisti promettenti passavano di lì, tra cui Aldo Ossola.

Giunge il salto in prima squadra.
Gli allenamenti erano intensi e due volte alla settimana giocavamo proprio contro l'Ignis che allora schierava Remo Maggetti, Sauro Bufalini, Giovanni Gavagnini, Massimo Villetti, Ottorino Flaborea e l'americano Toby Kimball, che poi tornò a giocare in patria nei Boston Celtics. Arrivammo in prima squadra nel 1969 e con me c'erano Steve Sullivan, Dodo Rusconi e Dino Meneghin. Nel frattempo il commendatore Giovanni Borghi aveva costruito a Napoli l'"Ignis Sud", con relativa squadra di basket. Mi offrirono di trasferirmi in Campania, ma scelsi la Snaidero Udine, anche se ebbi proposte dalla Fortitudo Bologna e dalla Stella Azzurra Roma. Non sbagliai la scelta, rimasi due anni in Friuli e in quella società maturai tantissimo. Chi mi aiutò fu uno dei giocatori più forti che abbia mai incontrato, un maestro nel ruolo di pivot: era Joe Allen, 2,01 per 140 kg. Mi insegnò molto la posizione e come muovermi sotto canestro, prima da ala grande e poi piccola. Giocava con un vistoso tutore al ginocchio per via di un infortunio ai legamenti e nonostante si muovesse lasciando quasi sempre un piede fermo, era di una tecnica sopraffina. Nel giro della Nazionale mi fecero capire che sarei dovuto rientrare nel giro delle grandi società, che allora erano o la Ignis o la Simmenthal Milano. Fu così che nel campionato 1970-71 mi accasai di nuovo a Varese e ci rimasi fino al 1978. Vincemmo tutto quello che c'era da vincere, collezionai 157 presenze in Nazionale (anche se le statistiche riportano 153) e conquistammo il quarto posto alle Olimpiadi di Monaco '72 e il quinto a Montréal '76. Eravamo invincibili e nel 1973 ci aggiudicammo in finale a Liegi la Coppa dei Campioni contro il Cska di Mosca, forse la partita più bella che abbia disputato, unitamente a quella contro la Simmenthal, gara in cui realizzai 33 punti e senza il nostro "americano" Meneghin. A Liegi c'erano: Morse, Lucarelli, Zanatta, Flaborea, Chiarini, Bertolucci, Raga, Polzot, Ossola, Rusconi, Meneghin, con l'allenatore Aza Nikolić. Veramente invincibili. Anzi, mi ricordo che Bob Morse, tra i più forti americani che siano venuti in Europa, per i punti se la vedeva con Manuel Raga, un atleta da un'elevazione unica. Saltava oltre 1,20 metri, rimaneva in sospensione un secondo più degli altri e negli allenamenti aveva introdotto un attrezzo-elevatore che lo faceva schizzare come una molla.

Poi disse basta.
Sicuramente prematuramente e sbagliai. A 33 anni appesi le scarpette al chiodo e mi dedicai alla carriera manageriale. Devo dire che nel 1968 mi ero sposato con Gabriella Luzi, morta tragicamente in un incidente automobilistico, mentre era in macchina con il padre, di ritorno dall'aeroporto di Pescara. Mi ero successivamente unito con Midia Borghi, la figlia del titolare del Gruppo Ignis. In quell'anno e per due stagioni, divenni presidente del Varese Calcio in serie B. Poi seguii il settore industriale dei frigoriferi. Avrei potuto rimanere nell'ambiente cestistico, ma cambiai e forse feci l'errore più grande, sotto il profilo professionale. Nel frattempo, dopo il diploma, mi ero iscritto all'università Statale di Milano a Economia e Commercio. Non feci nulla e nel giro di poco tempo scelsi l'Isef dell'Università Cattolica e mi diplomai. Se parliamo di occasioni mancate, lì me ne feci sfuggire una clamorosa. Mi chiesero di rimanere in facoltà come insegnante di basket, ma giocavo ai massimi livelli e non ci pensai più di tanto a rifiutare l'offerta. Nel tempo mi sono pentito.

Ecco che si riaffaccia Roseto.
Fui manager in altri settori, come nel tessile e nella produzione di liquori, fino a tutti gli anni '80. Nella decade successivi lavorai nel settore immobiliare fino a quando nel 1999 fui chiamato da Michele Martinelli a Roseto come dirigente della società di basket. Vi rimasi quattro anni, approdando nella massima serie e con ricordi indelebili. Quando il presidente vendette la squadra ad Amadio, lo seguii a Rieti, per poi ritornare nel 2003 a Varese. Nel frattempo avevo conosciuto Luigina Paoletti, un'insegnate di Roseto, con la quale mi sono unito in matrimonio il 2 maggio 2010, proprio alla Villa Comunale. Officiante fu il sindaco Franco Di Bonaventura, una persona splendida. Mia moglie aveva la cattedra a Varese, ma nel 2012 siamo rientrati a Roseto e ci siamo stabiliti definitivamente nella nostra casa di via Svezia al numero civico 1. Dallo stesso anno sono in pensione e oggi mi occupo di alcuni hobby, tra cui il golf che pratico nel campo di Miglianico.

Roseto...
Rappresenta molto per me. Non nascondo che sono tornato per fare qualcosa per il basket, ma non c'è stato il giusto feeling. Reputo questa città una bella realtà, anche se i nostri amministratori fanno poco. Negli ultimi quarant'anni le cose sono rimaste un po' ferme, mentre altre realtà sono cresciute meglio. D'altronde il destino della nostra città è un po' legato a quello dell'Abruzzo, una regione straordinariamente bella, ma che pochi conoscono.

Da lassù qualcuno ha sentenziato. La visione è certamente privilegiata, come sempre, ma l'analisi è da vero manager, lavoro che dopo la palla a spicchi conosce meglio di qualsiasi altra cosa. E sul turismo, questa volta, ha sbagliato veramente poco.

William Di Marco


VIDEO


IWAN BISSON.
Vittoria della Coppa Campioni 1975 con l'Ignis Varese.
https://www.youtube.com/watch?v=bvHa-kYsasQ

IL CAMPIONISSIMO
Incontro con: Iwan BISSON. Parte prima.
https://www.youtube.com/watch?v=1Kkh3f8Z32k

IL CAMPIONISSIMO
Incontro con: Iwan BISSON. Parte seconda.
https://www.youtube.com/watch?v=agPizq3aMgc

FACEBOOK
IWAN BISSON: IL CAMPIONISSIMO.
Giulianova, Circolo Virtuoso “Il Nome della Rosa”, venerdì 12 aprile 2013.
Foto di Cristian Palmieri.
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.604851246202702.1073741837.110634145624417&type=3

ROSETO.com > Archivio
IWAN BISSON


7 febbraio 2016
IWAN BISSON NELLA HALL OF FAME DEL BASKET ITALIANO
L’articolo pubblicato sul MESSAGGERO Abruzzo venerdì 5 febbraio 2016.
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=14770

21 aprile 2016
BUON COMPLEANNO, IWAN BISSON!
Nel giorno dei suoi 70 anni, intervista al campionissimo che vive a Roseto, di recente inserito nell’Italia Basket Hall of Fame.
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=15043

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