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Sabato, 4 Maggio 2024 - Ore 21:14 Fondatore e Direttore: Luca Maggitti.

25 anni senza Faber (11.01.1999-11.01.2024)
LA TESI DI LAUREA DI GIORGIO DI BONAVENTURA PER RICORDARE FABRIZIO DE ANDRÉ / 4
Fabrizio De André.

Edgar Lee Masters.

Il quarto capitolo (La rivisitazione poetico musicale di Fabrizio De Andrè) nella gran parte. Domani la restante parte del quarto capitolo e le conclusioni.

Roseto degli Abruzzi (TE)
Mercoledì, 24 Aprile 2024 - Ore 15:45

Un quarto di secolo fa (11 gennaio 1999) passava a miglior vita, sulla soglia dei 59 anni e per le conseguenze di un tumore ai polmoni, uno dei più grandi cantautori della musica leggera italiana: Fabrizio De André.
Questo sito intende omaggiare l'inimitabile artista genovese pubblicando la tesi integrale - elaborata in Letteratura Comparata (Facoltà di Scienze della Comunicazione) nell'anno accademico 2019/2020 - discussa da Giorgio Di Bonaventura, ex cestista abruzzese, classe 1997, cresciuto nel settore giovanile del Moncalieri e successivamente visto in canotta Roseto (A2), Latina (A2), Cento (A2), Teramo (B) e Luiss Roma (B), quest'ultima la franchigia con cui, nella stagione 2022/2023, ha conquistato la promozione in A2. Giorgio è stato anche atleta della Nazionale di Basket 3x3, disputando tornei internazionali e il Mondiale Under 23 in Cina nel 2019.
Buona lettura.


GIORGIO DI BONAVENTURA
Il regista poetico-musicale De André e la collina di Spoon River


Indice, Introduzione, Capitolo Primo (Rapporto fra Letteratura e Musica).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21272

Capitolo Secondo (La vita di Edgar Lee Masters e L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21277

Capitolo Terzo (La traduzione dell’Antologia di Spoon River in Italia).
http://www.roseto.com/scheda_news.php?id=21296

CAPITOLO QUARTO
LA RIVISITAZIONE POETICO MUSICALE DI FABRIZIO DE ANDRÉ


Come abbiamo cercato di evidenziare in particolare nella seconda parte del secondo capitolo, in ogni poesia presente nell’Antologia di Spoon River è ripercorsa la vita di un essere umano, seppellito sopra quella immaginifica collina che diventa, com’era nelle intenzioni del suo autore, una sorta di microcosmo capace di restituire fedelmente una catalogazione sistematica dei mestieri e delle tipologie umane; consapevoli che quei versi prendevano origine da fatti realmente accaduti, possiamo convenire - come suggeriva il poeta, scrittore e critico Cesare Pavese – che quegli epitaffi, cosi asciutti e contemporaneamente così impregnati di carica emotiva, rappresentano un’analisi oggettiva e spietata della società americana del tempo, legata indissolubilmente ai valori puritani, bigotti e borghesi, espressi dalle classi dominanti che avevano iniziato da tempo a strizzare l’occhio al capitalismo, nella speranza di allargare ulteriormente la forbice della distanza, non solo economica, fra le classi sociali più agiate e quelle meno abbienti. Ovviamente, come già rimarcato, l’idea base dell’opera considera le anime che dormono sulla fatidica collina come individui che, non avendo più nulla da temere o da perdere, possono finalmente esprimersi senza filtri, mettendo al primo posto la sincerità, disinteressandosi delle rigide convenzioni sociali e delle ipocrisie che caratterizzavano i precari equilibri legati alla convivenza terrena. Questo inno alla libertà, alla trasparenza che i defunti trasmettono ai posteri è la cosa che più conta per Masters, un autore che non nasconderà mai le sue tendenze anarchiche e, appunto, libertarie. Dalle lapidi di Spoon River abbiamo udito sollevarsi l’accusa di Dorcas Gustine, indesiderato dai suoi concittadini perché onesto e schietto, convinto che il silenzio non giovi in nessun modo alla serenità dell’animo; abbiamo condiviso con Serepta Mason il desiderio di rivendicare la sua vita, dopo che le è stata negata l’opportunità di esprimere liberamente la sua essenza; abbiamo patito con Minerva Jones, la scrittrice di paese, l’alter ego di Masters, sbeffeggiata e umiliata dalla grettezza di un ambiente che invece di proteggerla l’ha isolata, condannandola a subire brutalità mortali da un energumeno di nome Weldy; attraverso la tenera figura di George Gray ci è stato ricordato che una vita condizionata dal timore di sbagliare, o di esplorare nuove strade, diventa in automatico sinonimo di tortura; infine, le parole dense di sentimento di Paul McNeely per la sua adorabile Jane e il suo fremente desiderio di recuperare la salute per perdersi con lei in un abbraccio amoroso, cosa purtroppo irrealizzabile, ci ha commosso, rammentandoci la fugacità della nostra esperienza terrena, spesso condita da ingiustizie impossibili da accettare. Quindi, nei versi messi in bocca da Masters alle anime che dimorano nel cimitero di Spoon River, ritroviamo tutto lo sconforto e l’emarginazione di un’umanità bersagliata, ignorata e segregata da una comunità perbenista e individualista, restia ad accettare il proposito di spendere le proprie energie al fine di aiutare i diseredati, i reietti, i repressi, tutti quegli individui che non vengono riconosciuti dalla società borghese come “fratelli”.

Più di mezzo secolo dopo, in Italia, esisteva soltanto un cantastorie, anch’egli pacifista ed anarchico libertario al pari dello scrittore americano e soprattutto abituato da sempre a schierarsi dalla parte dei diseredati, che poteva ripercorrere e nobilitare - elevandosi a regista poetico-musicale di un progetto creativo innovativo - le storie di quelle anime in cerca di riscatto, descritte magistralmente dal “cantore dell’Illinois”: Fabrizio De André. E non è certamente un caso che a far balenare nella testa di Faber l’idea di trasferire in vinile alcuni profili dello Spoon River fu proprio la compaesana Fernanda Pivano che aveva regalato una copia della sua traduzione della famosa Antologia proprio a quel giovane e talentuoso poeta, affascinato dai quartieri meno eleganti di Genova e in grado, grazie alla sua inseparabile chitarra e ad una voce magnetica, di cantare i poveri e le prostitute senza giudicarli, come faceva invece il perbenismo ipocrita della società italiana degli anni Sessanta e Settanta, ricreando quindi una sorta di analogia con quanto descritto da Masters in America mezzo secolo prima. Per inciso, Nanda Pivano a Genova aveva stretto un’amicizia indissolubile con due personaggi che, seppur decisamente più giovani di lei, marchieranno per sempre la sua identità genovese: Fabrizio De André e Don Andrea Gallo (1928-2013), quest’ultimo un carismatico prete di strada, ex partigiano, molto amato perché più vicino alle persone in difficoltà che ai vertici ecclesiastici, a cui, tra l’altro, toccherà tenere, nell’affollatissima basilica di Carignano, l’accalorata e struggente omelia funebre nel momento della triste dipartita dei due amati compagni di viaggio, avvenuta a dieci anni di distanza, Faber nel 1999 e Nanda nel 2009. Ma torniamo al rifacimento musicale dello Spoon River da parte di De André. Faber conosceva molto bene la forza evocatrice dei versi di Masters, abilissimo ad utilizzare, attraverso racconti in flashback, un tono narrativo essenziale e mai retorico:

«Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto diciotto anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi ci trovavo qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare»   (1).

Se nella carriera di Faber la traduzione fa capolino fin dagli esordi, con il cantautore alle prese con i brani di Brassens, oscillando da versioni fedeli all’originale, come Delitto di paese, a rivisitazioni più personali, tipo Il gorilla, il lavoro compiuto sui versi di Masters si colloca in una dimensione diversa, visto che le poesie da cui verranno tratte le nove canzoni di Non al denaro non all’amore né al cielo non sono soltanto tradotte o liberamente adattate ma prese, interiorizzate e poi restituite sotto una nuova veste, al punto da far dire alla Pivano:

«Fabrizio ha fatto un lavoro straordinario; lui ha praticamente riscritto queste poesie rendendole attuali, perché quelle di Masters erano legate ai problemi del suo tempo, cioè a molti decenni fa. Sono molto più belle quelle di Fabrizio, ci tengo a sottolinearlo»  (2).

L’album è destinato a rappresentare un crocevia decisivo nella carriera dell’artista ligure, per diversi motivi: intanto, se fino a quel momento il punto di riferimento poetico e musicale era stato il modello transalpino di Brassens, la lente d’ingrandimento posta sull’opera di Masters diventa il primo passo di avvicinamento verso il mondo statunitense. Poi, bisogna considerare che, musicalmente parlando, il disco ispirato allo Spoon River rivela una profonda svolta folk-rock, dando il via ad un percorso che troverà totale compimento nei lavori di fine decennio, suggellati dallo storico tour realizzato, in giro per l’Italia, con la PFM nel 1979; quindi, questo album può anche essere visto come un preludio di avvicinamento verso artisti d’oltreoceano prestigiosi come Leonard Cohen e Bob Dylan. Inoltre, proprio a partire da questa esperienza artistica, Faber deciderà di avvalersi costantemente, per la realizzazione dei suoi prodotti discografici, di collaborazioni eccellenti sia dal punto di vista testuale che musicale, ritagliando per sé la figura del “regista poetico-musicale”. Che questo disco collochi di diritto De André nella famosa “terza dimensione”, indicata più volte nel primo capitolo dal Prof. La Via, lo scrittore e blogger Riccardo Lestini non ha certo dubbi:

«L’ascendenza totalmente letteraria, la strepitosa levatura e intensità dei versi, la straordinaria potenza interpretativa di De André […] nonché il secolare giudizio per cui si continua a ritenere la musica d’autore quasi esclusivamente testuale, hanno fatto sì che Non al denaro non all’amore né al cielo venisse (e ancora oggi venga) considerato il lavoro più cantautoriale della discografia di Faber. Al contrario, la grandezza del disco risiede proprio nella sua granitica compattezza d’insieme, dove nessun elemento è sottomesso agli altri, dove tutto risulta essenziale e necessario. Dove soprattutto l’idea del concept album non vive soltanto nell’unità tematica e narrativa dei testi, ma anche nella musica, che al pari delle parole svolge un unico discorso, costruisce un’unica architettura fatta di partiture collegate e consequenziali, una serie di rimandi che si corrispondono e si sovrappongono»  (3).

Insomma, come convengono tutti i critici musicali - nonostante la forte censura della RAI, che si rifiutava nuovamente di promuovere le inedite canzoni di De André come già era accaduto in passato per Bocca di rosa, Via del Campo, Carlo Martello, Si chiamava Gesù e altri brani ancora - ci si trova davanti ad una vera e propria “ricomposizione” armonica tra poesia, letteratura e musica, che consente di definire Non al denaro non all’amore né al cielo uno degli album più rappresentativi dell’intero decennio. D’altra parte, le parole di De André - pensate ed espresse in relazione al suo ruolo artistico - non hanno mai alimentato dubbi sull’importanza e sul peso che egli conferiva a tutti gli elementi che partecipavano alla creazione di uno dei suoi prodotti discografici:

«La musica è semplicemente un veicolo attraverso il quale io ho pensato di esprimere le sensazioni che ho avuto, addirittura quelle che possono essere le sintesi o le dilatazioni di fatti e avvenimenti che mi è accaduto di vedere o di sentire o addirittura di leggere. Non sono un musicista perché altrimenti mi sarei limitato a fare della musica, non sono un poeta perché mi sarei limitato a fare della poesia cioè a scrivere, sono un cantautore quindi faccio un lavoro composito che ha bisogno, per arrivare a un tentativo compiuto di espressione, di ambedue le componenti, quindi sia delle parole che della musica»  (4).

Di sicuro, possiamo affermare che uno dei valori aggiunti più evidenti di questo progetto artistico poetico-musicale consiste nella capacità straordinaria di Faber di identificarsi con i personaggi delle canzoni:

«Mi sono ritrovato nei personaggi di Spoon River come ci si sono ritrovati altri, perché ci rassomigliamo un po' tutti. Il fatto clamoroso è che questi personaggi che si muovevano nella piccola borghesia dell’America degli anni ’10 siano gli stessi che si muovono nella borghesia della grande Europa del 1971, o del grande mondo. È abbastanza angosciante il fatto che non sia cambiato proprio niente. Anche adesso esistono giudici nani che per rivincita diventano carogne, scemi del villaggio, e sempre in maggiore quantità»  (5).

In definitiva, l’album di De André è considerato come uno degli esempi di contaminazione tra poesia e musica meglio riusciti, e non facendo riferimento esclusivamente a quel determinato decennio. Arriviamo a definire questo progetto artistico un capolavoro non solo perché l’artista ligure è riuscito a trasporre magnificamente gli eventi realmente accaduti in un periodo storico più vicino a quello dell’ascoltatore, ma perché è stato così abile da rendere quelle vicende - a volte drammatiche e cupe, a volte tenere e commoventi - universali e senza tempo, facendo in modo che la provincia descritta da Masters all’inizio del 900 diventasse lo specchio del mondo:

«Era un’opera che mi aveva sempre entusiasmato fin dai tempi del liceo, quando avevo cominciato a leggerla. Ma era anche un libro difficile, non accessibile alla cosiddetta massa. Allora ho pensato che scegliendone i passi più belli, modificandoli per adattarli alle note e rendendoli più facili, anche il grosso pubblico avrebbe potuto conoscere alcune tra le più belle poesie che esistano al mondo»  (6).

I vizi e le virtù, i pregi e i difetti, le ipocrisie e gli slanci di sincerità, insomma tutte quelle dinamiche umane descritte prima dal poeta-avvocato dell’Illinois e poi rivisitate da Faber, risultano ancora attualissime ai giorni nostri; a tal proposito, credo sia legittimo affermare che l’obiettivo dei due artisti è stato ampiamente raggiunto poiché entrambi sono riusciti - ovviamente ognuno con il proprio stile e attraverso la propria sensibilità - a rappresentare svariate dinamiche universalmente valide in due microcosmi ben definiti e a fornire un’analisi minuziosa della società dell’epoca che, però, proprio perché innegabilmente generale, non smetterà mai di essere sovrapponibile al presente.
Nel caso specifico di De André, le cui micro-storie sono rese in tutti i brani dell’album in prima persona, pur non facendo riferimento a figure storiche precise, colgono contraddizioni tipiche dell’epoca e rappresentano il crescente individualismo di una collettività che, sulla scia del boom economico registrato negli anni Sessanta, continuava a mutare. A tal proposito, credo sia importante rimarcare che De André, aggiungerei coerentemente con i suoi principi anarchico-libertari, si è sempre rifiutato di essere catalogato all’interno di un gruppo e tantomeno di un partito politico, anche se è innegabile che i temi che Faber ha sempre sentito di dover rappresentare artisticamente svelano nel senso più pieno della parola un’inclinazione politica. A tal proposito, risultano illuminanti le parole di Antioco Floris (1963):

«Guai a voler trovare nell’opera del cantautore genovese un testo che predica la rivoluzione o l’intervento per cambiare il mondo, no, egli si “limita” a raccontare storie, storie che propongono diversi modelli sociali e di vita che fanno riflettere. Allora, la sua canzone è politica perché esprime una visione del mondo che non è neutrale, perché propone modelli nuovi di interpretazione della realtà. In tal senso e solo in tal senso egli è un cantautore politico»  (7).

Appare evidente dunque, che nonostante Faber non si ritenesse un artista politicamente impegnato, la sua produzione discografica di fatto lo sia stata, dando voce a personaggi e ambienti che solitamente venivano esclusi o, semplicemente, non l’avevano. Ad onor del vero, bisogna aggiungere che, sebbene nella sfera pubblica il cantautore non avesse mai dichiarato il proprio impegno politico, nel privato non ha mai negato il desiderio di provare a rendersi socialmente utile attraverso la sua sensibilità musicale:

«Ho sempre pensato di dover essere socialmente utile per contare qualcosa (soprattutto di fronte a me stesso). Non per demagogia o per poter dire “io sono socialmente utile” ma proprio per soddisfare delle mie esigenze private [...]. In tutti i miei lavori mi sembra che l’impegno sociale ci sia sempre [...], fatto sempre con l’intento di rendermi utile alla collettività»  (8).

A prescindere dai risultati che questo sincero approccio abbia ottenuto, in De André è impossibile non riscontrare uno slancio umano e poetico, utilizzato a puntare un fascio di luce su quelle figure che si nascondono nelle pieghe della società, offrendo il punto di vista di individui spesso oppressi e segregati, fratelli e sorelle che da sempre tendono a muoversi - come lo stesso artista ha cantato nell’epico e suggestivo brano Smisurata preghiera (album Anime salve, 1996) - «in direzione ostinata e contraria».

Detto ciò, iniziamo ad addentrarci più in dettaglio all’interno di questo nuovo progetto poetico-musicale, chiedendoci innanzitutto: chi sono gli artefici tecnici di questo miracolo cantautoriale, di questo LP - uscito nell’autunno del 1971, intitolato Non al denaro non all’amore né al cielo e capace di registrare subito un grande successo - dove ogni elemento appare essenziale e indispensabile? Partiamo dalla produzione, che mette in campo un dispiego di forze notevoli, affidata a due grandi professionisti, e cioè Roberto Dané, che aveva curato la produzione del precedente disco di Faber - il concept album La buona novella (1970), tratto dalla lettura di alcuni Vangeli apocrifi nei quali il cantautore intravide punti di contatto con l’ideologia anarchica - e Sergio Bardotti, la cui presenza venne motivata con le testuali parole:

«C’era il gruppo marxista-leninista che erano Dané, Piovani, Bentivoglio [...] avevo i fondamentalisti. Io ho voluto qualcuno che la pensasse come me e che affiancasse Dané, ecco spiegata la presenza di Sergio Bardotti»  (9).

Alla luce delle valutazioni compiute da De André per bilanciare le tensioni emotive della sua nuova squadra di lavoro, ritengo opportuno ricordare, per meglio inquadrare il contesto socio-politico in cui andava ad inserirsi questo ambizioso progetto artistico del cantautore genovese, che attraverso il disco La buona novella Faber aveva cercato di evidenziare, in un momento di forte prosperità economica del paese, le zone d’ombra della società borghese proprio attraverso la prospettiva della società cattolica, attraverso cioè la visuale del Vangelo e dei valori ad esso collegati. Soprattutto, credo sia importante sottolineare che, se è vero che Non al denaro non all’amore né al cielo rappresenta, diciamo così, la fase storica successiva, è anche vero che, nel frattempo, la situazione sociale e politica era addirittura peggiorata, nel senso che il sogno di un mondo migliore si era progressivamente trasformato in un incubo, infondendo in quelle generazioni Peace & Love un innegabile senso di fallimento e frustrazione. Infatti, i cambiamenti radicali tanto auspicati dal movimento del Sessantotto non si erano materializzati, ridimensionando sensibilmente, già nei primissimi anni del nuovo decennio, quel coraggioso coinvolgimento, studentesco e politico, che aveva caratterizzato la società della seconda metà degli anni Sessanta; a questo senso di disillusione, bisognava poi aggiungere che, con il progredire delle società industrializzate e capitaliste, il fenomeno dell’individualismo, a cui progressivamente si collegava il consumismo di massa, andava espandendosi a macchia d’olio, trovando il suo culmine negli anni Ottanta, quando la spinta sessantottina diventerà poco più che uno sbiadito e quasi retorico ricordo. In pratica, con il miglioramento della qualità della vita, visto che beni di consumo come una tv, un frigo o una lavatrice erano diventati alla portata di tutti, la tendenza del cittadino medio era quella di indirizzare le proprie energie ed aspirazioni verso l’avere piuttosto che verso l’essere; questo segnale dei tempi faceva capire che la società italiana si stava progressivamente allontanando da un modello collettivo e di condivisione per orientarsi verso un modello di rafforzamento solitario basato, appunto, sull’individualismo e sul nucleo famigliare. In questo contesto assolutamente incapace di offrire risposte concrete alle criticità sollevate dalle rivolte sessantottine e permeato, seppur nel suo processo di industrializzazione ancora recente, di consumismo e capitalismo dilagante, la relativa notorietà di Masters in Italia si rivelava estremamente funzionale per De André. Infatti, se da una parte l’opera di Masters era conosciuta in Italia grazie alla traduzione di Fernanda Pivano, dall’altra l’avvocato “stregato dalla poesia” rimaneva un illustre sconosciuto al di fuori dell’ambito letterario, tanto da farlo definire da Eugenio Montale, come abbiamo già visto, un «celebre e sconosciuto autore». Questo scenario offriva a De André l’opportunità di fare in modo che la sua poesia incontrasse la poesia di Masters, al fine non solo di tradurre in musica i versi del cantore dell’Illinois, ma anche di rivisitarli per riadattarli tanto alla prospettiva musicale quanto al contesto sociale, politico e culturale che doveva fruirne. Faber aveva intuito che questa nuova metodologia di lavoro che si apprestava a sperimentare avrebbe magnificato il suo ruolo di regista poetico-musicale. Ecco che risultano fin troppo eloquenti le parole che lo stesso De André - parlando degli epitaffi di Spoon River Anthology in un’intervista con la Pivano, poi pubblicata all’interno dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo - scandisce:

Pivano: Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a “comunicare”? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani? Fabrizio: Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri [...], ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c’era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell’animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io. Pivano: Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo? Fabrizio: Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli dalla piccola borghesia della piccola America del 1919 e inserirli nel nostro tipo di vita sociale.

Fatte salve queste precisazioni, fondamentali per contestualizzare al meglio l’esposizione del lavoro, torniamo al progetto artistico specifico, relativo all’album Non al denaro non all’amore né al cielo: detto della produzione, affidata al tandem Dané-Bardotti, Faber, come alter ego per la parte che concerne i testi, oltre alla super visione di Fernanda Pivano, decide di coinvolgere lo scrittore romano Giuseppe Bentivoglio, che tra l’altro aveva già affiancato l’artista ligure per il brano Ballata degli impiccati (album Tutti morimmo a stento, 1968), pezzo ispirato da un articolo nel quale veniva descritta l’impiccagione di otto presunti delinquenti di colore, avvenuta a Johannesburg, in un Sudafrica ancora dilaniato dalle tensioni razziali; a tal proposito, ottima la riflessione di Viva:

«Il ricorso a descrizioni di estrema crudezza, la richiesta di attenzione rivolta a chi condanna, è quasi un appello alla pietà, alla compassione nei confronti di chi sta soffrendo – drogato, impiccato o alcolizzato, poco importa»  (10).

Nello specifico, quella di Bentivoglio rappresenta, nella sua carriera, la prima collaborazione voluta da Faber, che da questo momento tenderà ad avvalersi sempre di una spalla nella delicata fase di scrittura, consolidando nel tempo tale peculiarità come un metodo creativo insostituibile e foriero di ottimi risultati. Credo possa essere utile, a questo proposito, riportare le parole dell’autorevole musicologo milanese Luigi Pestalozza (1928-2017):
«Anche quando a firmare i testi delle sue canzoni non è solo, c’è un collaboratore, i testi sono suoi, il collaboratore è un indispensabile, sempre scelto con cura, interlocutore. Il cantautore, insomma, non viene meno, ed è in realtà una questione di ruolo, e dunque prima ancora di musica e cioè di stile, se anche la musica da cui infine tutto dipende nella canzone di De André, talora ha due firme, ma per un unico stile, che non vuole dire superiore talento del primo dei due firmatari. No, Fabrizio De André quando lavora alla musica o ai testi con Nicola Piovani o con Francesco De Gregori o con Massimo Bubola o Ivano Fossati o Mauro Pagani, o con Piero Milesi per gli arrangiamenti, entra con loro in un rapporto di reale confronto intellettuale, musicale, creativo, ma nei termini di una collaborazione che ha lui come dominus»  (11).

Detto della pagina relativa alla rilettura dei versi mastersiani, anche sul versante delle musiche si riscontra una novità fondamentale: Faber prende atto dell’incompatibilità, emersa nella lavorazione dell’album La buona novella, tra il maestro Reverberi e il produttore Dané e decide di coinvolgere nel progetto il direttore d’orchestra Nicola Piovani, quest’ultimo conosciuto proprio attraverso Bentivoglio. Il giovanissimo compositore, tra l’altro amico del maestro Ennio Morricone (1928-2020), si era già lasciato apprezzare per aver collaborato ad un album di Duilio Del Prete (La bassa landa, 1970). Queste le parole di Piovani sulla nascita della collaborazione artistica con Faber:

Immaginatevi un ragazzo di ventidue, ventitré anni che vuole fare il musicista, ha appena cominciato a lavorare come arrangiatore, [...] e che una mattina risponde al telefono e sente la voce di Fabrizio De André: «Vorrei che lei si occupasse degli arrangiamenti del mio nuovo disco, incontriamoci». Fu come vedersi entrare una stella cometa dentro casa. Fra me e Fabrizio c’era qualche anno di differenza, lui era già un grande mito, io un principiante. All’inizio dovevo fare solo gli arrangiamenti delle canzoni scritte da lui, ma lavorando cominciai a suggerire qualche variazione armonica [...] Finché a un certo punto lui mi chiese di scrivere insieme a lui. [...] Forse se avessi avuto un pizzico di saggezza in più mi sarei tirato indietro. Invece no, mi buttai, e oggi sono felice di averlo fatto  (12).

La scelta di Nicola Piovani - destinato quasi trent’anni dopo (1999) a conquistare l’Oscar per la colonna sonora del film di Roberto Benigni, La vita è bella – risultò azzeccatissima, anche in virtù di un rapporto quasi “cinematografico” che si instaurò fra il regista poetico-musicale genovese e il talentuoso pianista e compositore, come si evince bene dalle parole di quest’ultimo:
«È stata una collaborazione piuttosto completa, alcune musiche sono nate da me e altre da lui, ciascuno ha esercitato un lavoro di “intervento” sull’altro, proponendo o scegliendo una cosa anziché un’altra. È stata una sorta di lavoro di montaggio, come fanno due sceneggiatori»  (13).

Fra tutte le sintesi relative all’entusiasmante livello tecnico riscontrato nella creazione delle musiche di questo leggendario album, direi che quella espressa dallo scrittore e regista Riccardo Lestini merita davvero un inciso:

«Alle architetture più classiche e corpose di Reverberi (marcatamente barocche in “Tutti morimmo a stento”, più asciutte e teatrali ne “La buona novella”), il futuro premio Oscar opta per sperimentazioni più ardite e audaci, portando lo sposalizio tra progressive rock e cantautorato alle estreme conseguenze. Le sonorità ruvide del rock e l’immediata freschezza del folk, gli arpeggi elementari della più pura canzone d’autore e le complesse e raffinatissime partiture orchestrali, il ricorso continuo a strumenti classici e sviluppi tematici degni del miglior Brahms. Il tutto mescolato in un impasto perfetto magistralmente diretto da Piovani, che fa di questo disco un’autentica, inarrivata e inarrivabile sinfonia rock, il vertice più alto e nobile del progressive italiano»  (14).

Tutti memori delle problematiche tecniche emerse durante la registrazione dell’album precedente, quando in particolare il compositore Gian Piero Reverberi si era apertamente rammaricato di non essere riuscito a registrare la voce di De André come avrebbe desiderato, venne molto ponderata la figura del fonico: alla fine la scelta cadde sul collaudato Sergio Marcotulli, responsabile della registrazione agli studi Ortophonic di Roma. Poi, fra i numerosi musicisti di estrazione sia classica che pop-rock presenti negli studi di registrazione, da ricordare Vittorio De Scalzi dei quotati New Trolls alla chitarra acustica e la splendida voce solista di Edda Dell’Orso:

«Queste sinergie si tradurranno in un disco la cui qualità è ancora oggi elevata, nei testi, nelle musiche, nell’interpretazione e nei suoni. L’ascolto rimane sempre appassionato, non essendoci quelle cadute di tono che nei lavori precedenti erano da imputarsi alla non certo eccellente qualità delle registrazioni. Non al denaro non all’amore né al cielo è come un vecchio libro che si sfoglia riscoprendolo attuale nelle emozioni e nei contenuti»  (15).
Dei numerosi componimenti presenti nello Spoon River, De André ne sceglie inizialmente dodici per poi scendere definitivamente a nove, o forse sarebbe più corretto dire otto più il prologo; il criterio di selezione riguarda naturalmente quegli epitaffi che più si avvicinano all’universo culturale ed emotivo di Faber e che rappresentano, fondamentalmente, due temi individuati da Masters nella vita di provincia ma che il cantautore ligure tende a riconoscere come questioni universali: l’invidia, spesso disprezzabile frutto della scarsa conoscenza delle cose o degli individui che ci circondano, e la scienza, intesa come conflitto vissuto tra le ambizioni professionali del ricercatore e le mortificazioni che quest’ultimo è sovente costretto a subire da parte del sistema, avvertito come una sovrastruttura politico-economica autoritaria. A motivare la scelta operata nei confronti di tematiche come l’invidia e la scienza, le parole rilasciate dall’artista ligure alla Pivano nell’intervista pubblicata sul retro della copertina dell’album:

Per quanto riguarda l'invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell'uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l'invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.

Quindi, come anticipato, l’album presenta nove canzoni, di cui la prima è il prologo, cioè La collina, e poi arrivano le altre otto tracce, tematicamente divise in due gruppi di quattro componimenti dedicati, appunto, all’invidia (Lato 1) e alla scienza (Lato 2). Proprio per rimarcare l’intento di De André di voler rendere universali le dinamiche affrontate da Masters nell’analizzare la vita di provincia americana degli inizi del Novecento, è importante evidenziare una sostanziale differenza tra Non al denaro non all’amore né al cielo e l’opera originale composta dall’avvocato stregato dalla poesia: mentre Masters indica tutti i protagonisti dello Spoon River rigorosamente con nome e cognome, Faber decide di presentarli attraverso la loro professione, come fossero parte di una ben definita categoria sociale, con il risultato di accostarli perentoriamente alla quotidianità di chi ascolta le loro storie. Ad esempio, Selah Lively diventerà Un giudice mentre Francis Turner si trasformerà in Un malato di cuore e Dr Siegfried Iseman semplicemente in Un medico.

Precisato ciò, proviamo ad analizzare più nello specifico le canzoni che fanno parte di questo memorabile capolavoro. La collina, unico momento corale dell’album, rappresenta l’incipit e può essere considerata una specie di manifesto delle tematiche primarie che fanno capo ad entrambe le opere. Si tratta di un’introduzione che musicalmente - unendo strumenti sia acustici, come plettri ed ance, che elettrici, come chitarra e basso - rimanda molto alle suggestive atmosfere care al maestro Morricone mentre, per quello che riguarda l’adattamento testuale, presenta toni decisamente intensi, visto che vengono presentati uomini e donne, una dozzina contro la ventina del componimento, scomparsi in modo cruento, oppure per un tragico errore, chi a causa della guerra e chi a causa dell’amore: ovviamente, con il brano che si mostra in questa prima parte molto fedele al suo modello, ogni strofa chiude con il ritornello, ripetuto per due volte, «Dormono, dormono sulla collina»:

Dove se n’è andato Elmer / che di febbre si lasciò morire / Dov’è Herman bruciato in miniera / Dove sono Bert e Tom / il primo ucciso in una rissa / e l’altro che uscì già morto di galera / E cosa ne sarà di Charley / che cadde mentre lavorava / dal ponte volò e volò sulla strada / Dormono, dormono sulla collina / dormono, dormono sulla collina.

Nella parte centrale della canzone, al posto del tema della Rivoluzione Americana trattato nella poesia originale e comprensibilmente ritenuto da Faber troppo avulso dal contesto italiano, l’artista genovese introduce quello, a lui carissimo, della guerra, criticandola aspramente ed evocando immagini sensibilmente più crude e coinvolgenti di quelle proposte nello Spoon River; infatti, se la traduzione della Pivano offriva i seguenti versi:

E che fine hanno fatto lo zio Isaac e la zia Emily, / e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton, / e il maggiore Walker che aveva conosciuto di persona / uomini illustri della rivoluzione?... / Dormono tutti quanti sulla collina. / Gli hanno portato a casa figli morti in guerra / e figlie travolte dalla vita, / e i figli dei figli, in lacrime, rimasti senza padre… / Dormono, dormono, dormono tutti quanti sulla collina.

De André in pratica li stravolge per rendere più emotivamente coinvolgente il messaggio che, da pacifista anarchico libertario, intende trasmettere:

Dove sono i generali / che si fregiarono nelle battaglie / con cimiteri di croci sul petto? / Dove i figli della guerra / partiti per un ideale / per una truffa, per un amore finito male? / Hanno rimandato a casa / le loro spoglie nelle bandiere / legate strette perché sembrassero intere. / Dormono, dormono sulla collina / dormono, dormono sulla collina.

La terza ed ultima parte della traccia è quella probabilmente più significativa, perché, oltre a ritrovare i versi che Faber userà per il titolo conferito all’album - cioè Nor gold, nor love, nor Heaven, tradotti appunto in Non al denaro non all’amore né al cielo - De André avrà modo di presentare la figura di Jones il suonatore (Fiddler Jones) che rappresenterà una chiara proiezione autobiografica poiché incarnerà la tanto apprezzata libertà dell’uomo rispetto alla rigida morale, non scritta, imposta dalla società borghese. Il suonatore Jones - unico personaggio chiamato per nome da Faber ed il solo, presente nell’incipit La collina, ad essere menzionato due volte visto che poi sarà protagonista dell’ultima canzone dell’album – riveste, come vedremo in maniera più approfondita analizzando proprio la traccia ad egli dedicata, un ruolo fondamentale; infatti, egli è colui che «offrì la faccia al vento / la gola al vino e mai un pensiero / non al denaro non all’amore né al cielo», il solo, con i suoi novant’anni, in grado di trasmettere la positività di una vita senza rimpianti, vissuta serenamente al servizio degli altri, cercando di essere sempre sé stesso e suonando il flauto non per mestiere ma per esprimere la propria libertà, benché nel poema originale egli fosse tecnicamente un violinista, poi trasformato dal cantautore in flautista per esigenze metriche. Particolarmente riuscita e suggestiva risulta la chiusura del brano, visto che De André omaggia il poeta e scienziato persiano Omar Khayyàm (1048-1131), le cui quartine Rubaiyât – in pratica, una sintesi del suo affascinante pensiero, tradotte in inglese dal poeta Edward Fitzgerald nel 1859 – gli conferirono una discreta notorietà in tutto il mondo. Visto che nella poetica del matematico iraniano risulta fondamentale il tema del vino, inteso come rappresentazione della gioia e dolce strumento di appagamento immediato, l’accostamento cercato ed ottenuto dall’artista genovese con la figura che rappresenta il suo alter ego risulta perfettamente calibrato, poiché il violinista Jones riesce a vivere pienamente il presente, la sola dimensione nella quale l’esperienza terrena assume un senso, proprio attraverso il vino, la musica e l’essere disponibile verso gli altri. D’altra parte, come ci ricordava Edgar Lee Masters con il toccante epitaffio di George Gray, riportato nel secondo capitolo di questo lavoro, l’uomo non è in grado di prevedere il futuro, tantomeno il momento della sua dipartita, quindi la cosa più opportuna da fare è quella di vivere intensamente il tempo che gli viene concesso. La potente quartina di Omar Khayyām, poi simbolicamente rivisitata dall’artista ligure, è la seguente:

«Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli / che cosa mai posson comprare migliore di quel ch’han venduto?» modificata in «sembra di sentirlo ancora / dire al mercante di liquore / tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?»  (16).

Infine, dopo questi iconici versi oggi presenti persino in alcune antologie scolastiche, per concludere l’analisi sulla magnifica pagina musicale del brano La collina, ecco il pensiero di Nicola Piovani, intervistato da Mollica:

«Naturalmente, ogni canzone ha la sua storia. Per La collina, ad esempio, ci fu una preparazione molto laboriosa: in sala d’incisione registrammo tre edizioni differenti, una delle quali aveva una musica completamente diversa dalle altre due. L’ultima versione, quella che si sente nel disco, è un compromesso fra le tre diverse scritture musicali. Altri pezzi invece hanno seguito un percorso più lineare»  (17).

Il secondo brano di Non al denaro non all’amore né al cielo porta il titolo Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio) e corrisponde alla poesia numero ventotto dello Spoon River, intitolata Frank Drummer. A fronte di un componimento che conta soltanto otto versi, l’ispiratissima coppia De André/Bentivoglio sviluppa addirittura quattro strofe da sei versi ciascuna, descrivendo ciò che accade a Frank Drummer, il classico matto del villaggio deriso da tutti, e aggiungendo spunti decisamente potenti – relativi a tratti legati al tema della diversità, un argomento sempre primario nell’opera artistica di Faber - che fanno lievitare notevolmente il coefficiente poetico espresso dai versi di Masters, questi ultimi di seguito presentati rigorosamente nella traduzione realizzata da Fernanda Pivano:

Da una cella a questo luogo oscuro / la morte a venticinque anni! / La mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro, / e il villaggio mi prese per scemo. / Eppure all’inizio c’era una visione chiara, / un proposito alto e pressante, nella mia anima, / che mi spinse a cercar d’imparare a memoria / l’Enciclopedia Britannica!  (18)

Questa la splendida strofa iniziale proposta da Fabrizio De André:

Tu prova ad avere un mondo migliore / e non riesci ad esprimerlo con le parole / e la luce del giorno si divide la piazza / tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa, / e neppure la notte ti lascia da solo: / gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.

Quando, per farsi praticamente accettare dalla collettività che lo sbeffeggia perché non adeguato ai propri parametri, il “matto” cerca - in un generoso quanto disperato tentativo mirato proprio a riaffermare la sua socialità – di imparare a memoria la famosa Enciclopedia Britannica, che Faber sostituisce nel brano con l’altrettanto celebre Enciclopedia Treccani, il povero Frank Drummer di Masters viene portato dritto in manicomio:

E si, anche tu andresti a cercare / le parole sicure per farti ascoltare: / per stupire mezz’ora basta un libro di storia, / io cercai d’imparare la Treccani a memoria / e dopo maiale, Majakowsky e malfatto, / continuarono gli altri fino a leggermi matto.

Appare chiaro che la sostituzione delle due Enciclopedie è un abile stratagemma studiato dal regista poetico-musicale genovese per sdoganare la storia del “matto” in Italia e quindi sembra legittimo poter affermare che tale operazione consente a De André di confezionare elegantemente un’accusa alla società italiana, uscita disillusa dalle delusioni post ‘68 e anch’essa ammalata di conformismo, bigottismo e perbenismo, le stesse malefiche “infezioni” che Masters - seppur in un contesto storico differente - aveva riscontrato in America e descritto audacemente nello Spoon River.
Per quanto riguarda la parte finale del brano, dove nonostante la morte il “matto” trova nella fantasia di De André un’occasione di riscatto, possiamo tranquillamente affermare che essa viene proposta in completa libertà creativa; a tal proposito, ecco l’interessante analisi dello scrittore Pistarini:

Lee Masters parla di una visione iniziale chiara che spinge Drummer a cercare d’imparare a memoria l’enciclopedia, De André parla di una luce sopraggiunta nei pensieri del matto ormai sepolto che ora cambia le regole e inventa parole nuove, pur rimpiangendo l’altra luce, quella del sole. Sembra che ora gli sia tutto chiaro, nonostante – ultimo tocco, anzi stoccata tipica deandreiana – il popolino ancora bisbigli: “Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”  (19).

Infine, musicalmente parlando, possiamo affermare che Un matto è una ballata deliziosa e ritmata che può essere considerata un misto fra la classica canzone pop-rock legata al cantautorato americano e il folk-rock britannico.
Il terzo brano dell’album, intitolato Un giudice, è senza dubbio quello più famoso, ripreso anche da diversi artisti e reso ancora più incisivo e pimpante dagli arrangiamenti creati dalla Premiata Forneria Marconi nel celebre tour fatto con De André nel 1979. Selah Lively, il giudice affetto da nanismo narrato da Masters nella poesia numero novantaquattro, è un uomo mosso da un irrefrenabile desiderio di rivalsa verso un destino ingrato ma anche verso coloro che lo hanno sbeffeggiato impietosamente. Studiando giorno e notte, con il serbatoio carico di rancore a spingere al massimo il motore della motivazione, egli riesce a conseguire una brillante carriera forense che gli consente di ricoprire la carica di giudice e di poter valutare, questa volta dall’alto del suo scanno, l’operato di tutti, in particolare di quelli che in passato lo avevano deriso. Se nella trasposizione Faber segue abbastanza fedelmente, soprattutto nella seconda parte, l’intento poetico di Masters, il cantautore genovese espande notevolmente la parte iniziale, quella relativa alle maliziose prese in giro subite ingenerosamente dal nano, componendo versi sfrontati che entreranno di diritto nella storia della musica italiana:

Passano gli anni, i mesi / e se li conti anche i minuti / è triste trovarsi adulti / senza essere cresciuti; / la maldicenza insiste, / batte la lingua sul tamburo / fino a dire che un nano / è una carogna di sicuro / perché ha il cuore troppo, / troppo vicino al buco del culo.

Masters chiosa il componimento Selah Lively come segue:

Infine voi diventate il Giudice. / Ora Jefferson Howard e Kinsey Keene / e Harmon Whitney e tutti i pezzi grossi / che vi avevano schernito, sono costretti a stare in piedi / davanti alla sbarra e pronunciare “Vostro Onore” / Be’ non vi par naturale / che gliel’abbia fatta pagare?

mentre De André - dopo aver descritto la spietata metamorfosi del nano, con la sua frustrazione che diventa rancore e con il rancore che si trasforma in vendetta – conclude la canzone lasciando intendere che solo un Giudice Superiore, di cui nessuno è mai riuscito a misurare la statura, può mettere fine a questo meccanismo infernale, prodotto dalla cattiveria degli uomini:

E allora la mia statura / non dispensò più il buonumore / a chi alla sbarra in piedi / mi diceva “Vostro Onore” / e di affidarli al boia / fu un piacere del tutto mio / prima di genuflettermi / nell’ora dell’addio / non conoscendo affatto / la statura di Dio.

A rinforzare l’idea che il pezzo Un giudice – grazie anche al suo ritmo irresistibile e a tratti quasi da balera - occupi un posto di assoluto rilievo nel pregiatissimo canzoniere di Faber, arrivano le parole di Riccardo Lestini:

«Un monologo splendido realizzato con una concatenazione perfetta di rime e assonanze, in un susseguirsi rapido e vertiginoso di sequenze, un saliscendi continuo di torni e registri, dal triviale all’aulico, dal prosaico al lirico, accompagnato da una musica che all’inizio è un sibilo e poi si sviluppa in un crescendo drammatico e irresistibile»  (20).

Il quarto brano di Non al denaro non all’amore né al cielo porta il titolo Un blasfemo (Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato) e corrisponde alla poesia numero settantanove dello Spoon River, intitolata Wendell P. Bloyd. La canzone rappresenta una chiara invettiva polemica contro la religione, che per l’anticlericale De André è soltanto uno dei mezzi che i potenti utilizzano per subordinare la massa e controllarla. Il pezzo racconta la tragica storia di Wendell P. Bloyd, un uomo che viene portato in carcere con la strumentale accusa di immoralità e alla fine vigliaccamente ucciso – nella poesia di Masters da un infermiere cattolico, nella trasposizione poetico-musicale di Faber da due guardie bigotte - perché colpevole di non essere in linea con gli insegnamenti cattolici e con le regole non scritte impartite dall’ordine costituito. De André, come d’altra parte Masters che amava gli antichi greci perché riuscivano a pensare in termini universali, non accetta che possa esistere un potere, di destra o di sinistra, basato su una dittatura crudele e sanguinaria, orientata a far vivere tutti gli uomini nell’ignoranza, magari attraverso la strumentalizzazione dei testi religiosi, per timore che essi possano pensare di vivere in libertà, coltivando i valori legati alla tolleranza di pensiero, alla solidarietà sociale e al rispetto civile.
Il cantautore ligure - mostrando ancora una volta ispirazione ed autonomia di rilettura del poema mastersiano - inizia la trasposizione con una strofa bellissima che non trova riscontro nel componimento a cui si fa riferimento:

Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore / più non arrossii nel rubare l’amore / dal momento che Inverno mi convinse che Dio / non sarebbe arrossito rubandomi il mio.

Se, come dicevamo, Masters descrive l’autore dell’efferato assassinio del blasfemo Wendell P. Bloyd come un «infermiere cattolico», a De André fa gioco modificarlo in «due guardie bigotte» perché prepara abilmente il terreno all’incisiva e toccante rima «mi cercarono l’anima a forza di botte», cosa che consente a Faber di riproporre lo scottante tema, dall’artista ligure molto sentito, legato alla violenza a volte mostrata dagli uomini di legge, che avrebbero il compito di tutelare la salute fisica e psichica dei cittadini:

Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino, / non avevano leggi per punire un blasfemo, / non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte / mi cercarono l’anima a forza di botte.

Se la terza strofa e quella successiva restano molto fedeli alla poesia di riferimento, nella parte finale nuovamente riemerge la rilettura deandreiana. Infatti, mentre Masters si dilunga sul momento relativo alla crocefissione, De André preferisce spostare il suo focus sulle dinamiche sociali lasciando trasparire tutta la sua avversione a ciò che, in qualche modo, ha il sapore del “prefabbricato” e mortifica lo spirito religioso puro, quello spontaneo:

E se furon due guardie a fermarmi la vita, / è proprio qui sulla terra la mela proibita, / e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, / ci costringe a sognare in un giardino incantato, / ci costringe a sognare in un giardino incantato.

Infine, sul piano musicale, come ci ricorda Viva, siamo di fronte ad un pezzo che richiama le atmosfere respirate nel folk-rock britannico d’epoca:

«Tamburo e flauto introducono la canzone nel corso della quale si evidenziano i plettri (Mandolini), la dodici corde, il cembalo suonato da Arnaldo Graziosi e la viola di Dino Asciolla, oltre alla classica presente in finale di brano»  (21).

Il quinto brano, quello che chiude la prima facciata dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo, porta il titolo Un malato di cuore, si riferisce a Francis Turner, poesia numero ottanta dell’Antologia di Spoon River, e chiude magnificamente il ciclo che ha come tema portante l’invidia, cioè l’ambito che - insieme alla scienza protagonista della seconda facciata del long playing - caratterizza costantemente la vita di tutti gli esseri umani.
La poesia in questione è quella che in pratica fece innamorare Nanda Pivano dell’opera di Masters, al punto tale da indurla a tradurne tutti gli epitaffi:

Io non potevo correre né giocare / quando ero ragazzo. / Quando fui uomo, potei solo sorseggiare alla coppa, / non bere / perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato. / Eppure giaccio qui / blandito da un segreto che solo Mary conosce: / c’è un giardino di acacie, / di catalpe e di pergole addolcite da viti / là, in quel pomeriggio di giugno al fianco di Mary / mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, / l’anima d’improvviso mi fuggì.

Francis Turner quindi è un malato di cuore che, proprio a causa della fortissima palpitazione legata all’emozione, perde la vita nel momento in cui bacia per la prima volta Mary, di cui è innamorato; quale altro può essere il messaggio lanciato dall’avvocato “stregato dalla poesia”, al secolo Edgar Lee Masters, se non quello che la sua vita, pur se maledettamente breve, non è stata vissuta invano, visto che, anche se solo per pochi, pochissimi istanti, egli ha amato ed è stato sentimentalmente ricambiato?
La breve poesia di Masters viene, nella trasposizione di Faber, decisamente ampliata per avere la possibilità artistica di descrivere adeguatamente le difficoltà di un malato di cuore che, a causa dell’impietosa scarlattina, è inevitabilmente invidioso della condizione fisica degli altri, visto che lui è costretto a vivere una vita a dir poco complicata, privata delle gioie e delle emozioni tipiche prima dell’adolescenza e poi della sopraggiunta maturità:

Da ragazzo spiare i ragazzi giocare / al ritmo balordo del tuo cuore malato / e ti viene la voglia di uscire e provare / che cosa ti manca per correre al prato / e ti tieni la voglia, e rimani a pensare / come diavolo fanno a riprendere fiato. / Da uomo avvertire il tempo sprecato / a farti narrare la vita dagli occhi / e mai poter bere alla coppa d’un fiato / ma a piccoli sorsi interrotti / e mai poter bere alla coppa d’un fiato / ma a piccoli sorsi interrotti.

Quando, nella seconda parte del brano, ci si avvicina progressivamente al momento fatale in cui le labbra di Francis Turner toccano quelle della sua donna, l’emozionante poetica di Faber completa quella delicata di Masters:

Eppure un sorriso io l’ho regalato / e ancora ritorna in ogni sua estate / quando io la guidai o fui forse guidato / a contarle i capelli con le mani sudate / Non credo che chiesi promesse al suo sguardo / non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce, / quando il cuore stordì e ora no non ricordo, / se fu troppo sgomento o troppo felice. / E il cuore impazzì e ora no non ricordo / da quale orizzonte sfumasse la luce. / E fra lo spettacolo dolce dell’erba / fra lunghe carezze finite sul volto, / quelle sue cosce color madreperla / rimasero forse un fiore non colto. / Ma che la baciai questo sì lo ricordo / col cuore ormai sulle labbra, / ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo, / e il mio cuore le restò sulle labbra.

NOTE
(1)    F. De André, dalle note di copertina dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo di Fabrizio De André, Milano, Produttori Associati, 1971.
(2)    L. Viva, Falegname di parole. Le canzoni e la musica di Fabrizio De André, Milano, Feltrinelli Editore, 2019, p. 79.
(3)    R. Lestini, Storie / Come una specie di sorriso, “E ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”, http://www.riccardolestini.it/2018/04/come-una-specie-di-sorriso-7-e-ricordi-tanti-e-nemmeno-un-rimpianto-non-al-denaro-non-allamore-ne-al-cielo-1972/ .
(4)    E. Valdini (a cura di) in Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, Milano, Edizioni Rizzoli BUR, 2007, p. 129.
(5)    W. Pistarini, Fabrizio De André – Il libro del mondo: le storie dietro le canzoni, Firenze, Giunti Editore, 2018, p. 98.
(6)    Pistarini, Fabrizio De André – Il libro del mondo, cit., p. 97.
(7)    A. Cannas, A. Floris, e S. Sanjust (a cura di), Cantami di questo tempo: poesia e musica in Fabrizio De André, Cagliari, Aipsa, 2007, p. 71.
(8)    D. Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo: da Carlo Martello a Princesa, Roma, Edizioni Associate, 2001, p. 47.
(9)    Viva, Falegname di parole, cit., p. 79.
(10)     Ivi, p. 55.
(11)     L. Pestalozza, La canzone dell’altro mondo, in B. Bigoni e R. Giuffrida (a cura di), Fabrizio De André: accordi eretici, Milano, Euresis, 1997, p. 168.
(12)     Nicola Piovani intervistato da Vincenzo Mollica in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), Milano, Edizioni Rizzoli BUR, 2007, p. 121.
(13)     Viva, Falegname di parole, cit., p. 81.
(14)     R. Lestini, Storie / Come una specie di sorriso, “E ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”, http://www.riccardolestini.it/2018/04/come-una-specie-di-sorriso-7-e-ricordi-tanti-e-nemmeno-un-rimpianto-non-al-denaro-non-allamore-ne-al-cielo-1972/ .
(15)     Viva, Falegname di parole, cit., pp. 78-9.
(16)     La Fillossera. Innesti di vino e cultura. Omar Khayyâm il “poeta del vino”, https://lafillossera.com/2017/07/21/omar-khayyam-il-poeta-del-vino/ .
(17)     Nicola Piovani intervistato da Vincenzo Mollica in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), cit., p. 122.
(18)     E. L. Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Torino, Einaudi, 1993, p. 59.
(19)     Pistarini, Fabrizio De André – Il libro del mondo, cit., pp. 102-3.
(20)     R. Lestini, Storie / Come una specie di sorriso, “E ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”, http://www.riccardolestini.it/2018/04/come-una-specie-di-sorriso-7-e-ricordi-tanti-e-nemmeno-un-rimpianto-non-al-denaro-non-allamore-ne-al-cielo-1972/ .
(21)     Viva, Falegname di parole, cit., p. 81.


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